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venerdì 29 giugno 2018

Ventresca di tonno e fagioli freschi // Fenomenali sapori cosmici, in un minuscolo spazio vitale



Per dare il là a questa nuova etichetta del blog ho scelto un classico della tavola estiva: tonno e fagioli.

Si, lo  so che considerarlo un classico suona un po' altisonante per un piatto che, diciamo la verità, si tira insieme in cinque minuti e lo sforzo maggiore consiste nel non tagliarsi con la scatoletta mentre scoliamo l'olio in eccesso del tonno nel lavandino (cosa che in realtà non si dovrebbe fare, ho scoperto...).

Ma forse perché prosciutto e melone non è mai stato molto nelle mie corde e ormai la caprese, grazie alla mia adorata intolleranza, è ormai solo un ricordo, tonno e fagioli è uno dei miei jolly preferiti quando inizia a fare caldo e la voglia di cucinare va un po' a farsi benedire.

Quest'anno però ho deciso di provare a nobilitare questo abbinamento con un metodo di cottura che ho scoperto da poco.
Sì, lo so che ho detto che con il caldo mi passa la voglia di cucinare, ma il bello di questa preparazione è che di lavoro dovete farne davvero poco ai fornelli, e il resto è solo questione di tempo.


Il metodo a cui accennavo è la vaso-cottura, che altro non è che una cottura dei cibi all'interno di un vasetto.
Sì, immagino che potevate arrivarci anche senza la mia esauriente spiegazione.

Il bello di questo modo di cuocere il cibo non è solo che si autogestisce, ma che all'interno del piccolo volume del vaso, i sapori si concentrano grazie al calore e alla pressione.
Credo che si possa tranquillamente paragonare a quello che, se vi è capitato di guardare un qualunque programma di cucina -anche solo per sbaglio- avrete senz'altro già sentito nominare, ovvero la cottura sous vide (sottovuoto a bassa temperatura).

La temperatura a cui andremo a cuocere non sarà controllata e costante, ma vi assicuro che il risultato sarà comunque a dir poco stupefacente.

Ma veniamo al dunque.
Per un vasetto di fagioli:
  • 130gr circa di fagioli borlotti freschi già sgranati
  • uno spicchio d'aglio in camicia, schiacciato (facoltativo)
  • una grande foglia di alloro (facoltativo)
  • un vasetto di vetro da 250ml circa (io ho usato un Quattro Stagioni della Bormioli)


Versate i fagioli nel vasetto con l'aglio e l'alloro (ma aggiungete qualunque erba aromatica o spezia preferiate), coprite con acqua fredda e chiudete bene il vaso con il coperchio.

Mettete il vasetto in una pentola a bordi alti piuttosto capiente (vi consiglio di mettere uno straccetto sul fondo per evitare che in cottura, il vasetto inizi "beccheggiare"rischiando di farvi saltare i nervi!) e coprite fino al livello dei fagioli con acqua fredda: non coprite tutto il vasetto altrimenti potrebbe entrare dell'acqua indesiderata nella preparazione, ma se vi fidate ciecamente della potenza delle vostre braccia e riuscite a chiudere perfettamente i vasi, fate pure. In ogni caso, anche senza coprire completamente i vasetti, ho ottenuto ottimi risultati.

Cuocete coperto a fuoco lento per almeno un'ora e mezza a partire dal bollore. Se preferite i vostri fagioli più morbidi, quasi cremosi, protraete la cottura a due ore piene, ma in questo caso tenete sotto controllo il livello dell'acqua: se scende troppo il vasetto potrebbe scoppiare. E non è una cosa che volete vedere, fidatevi! Nel caso fate bollire un po' d'acqua in un pentolino (o bollitore, che ho quasi sempre a portata) e aggiungetela alla pentola.

Togliete il vaso dal suo bagno caldo e fatelo raffreddare un po' prima di aprirlo per servire.
Se però volete servire i fagioli a temperatura ambiente come faccio io in questa preparazione, lasciateli raffreddare completamente.


Se avete fatto tutto come si deve, è molto probabile che il vostro vaso faccia il vuoto, segnalato dal tipico 'tlac' del tappo che chi è abituato a fare le conserve in casa ben conoscerà.

Questo mi suggerisce che, sterilizzando i vasetti e cambiando i tappi (quelli a cui è stato tolto il vuoto non dovrebbero essere riutilizzati per conservare i cibi a lungo), si potrebbero preparare diversi vasetti di questi fagioli da tenere in dispensa per l'inverno.

Magari proverò e vi saprò dire.

Non ho salato la preparazione volutamente perché il tonno che serviremo insieme a questi fagioli è molto saporito, ma anche e soprattutto perché in cottura il sale renderebbe tenace la pelle dei legumi, risultando sgradevole.
Se ne sentite la necessità salate al momento del servizio.


Per un vasetto di ventresca di tonno all'olio:
  • circa 130gr di ventresca di tonno (o di pesce spada, o filetto di tonno)
  • un paio di foglie di alloro (facoltativo)
  • qualche bacca di pepe nero (facoltativo)
  • un paio di spicchi d'aglio in camicia, schiacciati (facoltativo)
  • sale q.b.
  • olio e.v.o. q.b.
  • un vasetto di vetro da 250ml circa (io ho usato un Quattro Stagioni della Bormioli)
Prendete la ventresca e salatela abbondantemente da entrambi i lati: dovrete coprirla con un leggero strato di sale.
Lasciatela riposare per circa mezz'ora.
Questa breve salatura, oltre a rendere la carne del pesce più sapida, la asciugherà leggermente, mantenendola più compatta e consistente anche a fine cottura.
Questa tecnica è ottima anche per altri tipi di pesce e altri metodi di cottura, provatela!

Trascorsa mezz'ora, sciacquate brevemente la ventresca sotto l'acqua corrente per eliminare il sale in eccesso.
Asciugatela con della carta casa e tagliatela in piccoli tranci di un paio di centimetri (o dadi)  il più possibile regolari.


Versate un filo d'olio sul fondo del vasetto, con una foglia di alloro, uno spicchio d'aglio e qualche grano di pepe (come già detto per i fagioli, scegliete gli aromi che più gradite, anche se devo dire che questa combo con il tonno è spaziale), inserite i tranci di tonno nel vasetto (dovranno stare piuttosto stretti) con il resto del pepe, l'altra foglia di alloro e l'ultimo spicchio d'aglio.

Terminate versando l'olio fino a coprite completamente il tutto.
Controllate che l'olio si distribuisca ovunque, e premete leggermente per eliminare il più possibile le eventuali bolle d'aria.

Chiudete e procedete alla cottura come avete fatto con i fagioli.
Ovviamente potete cuocere le due preparazioni insieme, vi basterà scegliere vasetti identici, o per lo meno con la stessa capienza: in questo modo risulterà più semplice trovare il livello dell'acqua congeniale per ogni vaso.

Cuocete per circa 40 minuti a partire dal bollore.

Togliete il vaso dal suo bagno caldo e, se volete utilizzarlo a temperatura ambiente come faccio io in questa preparazione, lasciatelo raffreddare completamente.

Altrimenti, vi do un consiglio libidinoso: fate bruscare qualche fetta di pane e serviteci il tonno ancora caldo sopra, con un filo dell'olio in cui ha cotto. Si scioglierà in bocca e in contrasto con la croccantezza del pane...mmmh...


Ma finiamo questo piatto, ok?
Scolate i fagioli dalla loro acqua e conditeli con il tonno sfogliato e qualche cucchiaino del suo olio.
Tonno e fagioli non esiste senza un po' di cipolla rossa, e se non volete usarla a crudo, vi consiglio uno tsukemono di cipolla di tropea che aggiunge un tocco agrodolce a questa insalata (dai, chiamiamola così) estiva. Ma a voi la scelta.

Visto? È più facile a farsi che a dirsi.
E la cosa bella di questo metodo di cottura è che potete adattarla alle vostre preferenze (come sempre), cambiando tipo di pesce, o usando dei tocchetti di carne magari, altre verdure, o combinando le due cose per un piatto unico in barattolo.

O perché non organizzare un vasocottura-party?! Ognuno si prepara il suo barattolo, si innaffia l'attesa della cottura con qualche bicchiere di prosecco e poi tutti a tavola, con la propria schiscetta personale.
Io ci vengo se mi invitate!




venerdì 25 maggio 2018

Composta di fragole alla chia // Salvando fragole



Sappiate che mi sto trattenendo con le ricette a base di fragole, perché essendo stagione rasento la mania compulsiva: ne compro più di quanto ne riesca effettivamente a mangiare e anche se ne ho  comprato un cestino -magari il giorno prima- e le vedo belle, rosse e profumate, non resisto e ne compro altre.

Con l'ovvio problema che, inevitabilmente, le più mature iniziano a deperire tristemente nel mio frigo.
Sono sicura che sapete cosa intendo: cominciano a perdere di freschezza, togliendoci un po' la voglia di mangiarle nude e crude.

Ovviamente non dovete aspettare che le vostre fragole abbiano il musino triste per realizzare questa ricetta, ma di solito è così che capita nella mia cucina...semplicemente perché quando sono pingui e succose finiscono direttamente tra le mie fauci.


E poi ormai lo sapete che la mia e spesso una cucina del recupero, anche se mi piace sempre sperimentare e tentare cose nuove: ecco il perché della chia.

Lo spunto per utilizzare questo curioso semino, lo devo ad un'amica in dolce attesa che mi ha confessato di avere qualche problemino di motilità intestinale (probabilmente mi ucciderà quando leggerà queste parole! XD).

Le ho consigliato subito la chia, perché su di me ha esercitato un effetto prorompente (e vi assicuro che non ne ho alcun bisogno!), quindi ho immaginato che a lei potesse dare il giusto risultato.

Ma, diciamolo, se mai l'avete provata in un chia pudding tanto in voga, l'effetto non è dei più entusiasmanti: i semini reidratati paiono un po' uova di rana.
E anche lei lamentava una certa diffidenza in tal senso.

Così ho pensato di utilizzarla -in minor quantità- per questa composta di frutta: la consistenza morbida delle fragole e i sui semini, mascherano la presenza della chia, che però esercita il suo potere addensante regalandoci oltretutto le sue proprietà.
  
Chissà se la mia amica apprezzerà...!?


Per un vasetto di composta:
  • 250-300gr di fragole
  • 2-3 cucchiai abbondanti di miele millefiori o arancia
  • 2-3 cucchiaini di semi di chia (facoltativo)
  • 1/2 stecca di vaniglia (anche recuperata da altre preparazioni oppure un cucchiaino di estratto
  • qualche goccia di succo di limone

La preparazione è veramente semplicissima: tagliate le fragole a tocchetti e irroratele con qualche goccia di succo di limone.

Nel frattempo fate caramellare il miele in una padella, insieme alla vaniglia.
Deve fare delle grandi bolle e iniziare a scurirsi leggermente, assumendo una sfumatura ramata.

Buttateci le fragole -facendo attenzione a non scottarvi con il miele bollente- e lasciate cuocere qualche minuto.
Io dopo 5-8 minuti massimo, spengo: in questo modo le fragole conservano la loro forma e restano piacevoli da mangiare, ma se le preferite più cotte e "cremose", proseguite la cottura fino ad ottenere la consistenza che desiderate.

A fine cottura, se lo desiderate, aggiungete la chia: questo semino (la cui pianta appartiene alla famiglia della salvia e della menta) ha millemila proprietà nutritive ma, come già accennato, la cosa interessante dell'aggiungerlo ad una composta con poco dolcificante e senza aggiunta di pectina, è che reidratandosi nei succhi rilasciati dalla frutta, la addensa, creando un ulteriore gioco di consistenze che in questo contesto trovo davvero interessante.

Se se la chia non è proprio nelle vostre corde, non volete acquistarla, o per qualsiasi altra ragione non vogliate arrischiarvi ad usare questo semino, potete addensare la composta sciogliendo un cucchiaino di amido di mais in due cucchiaini di acqua e versarlo nella padella ad un paio di minuti dal termine.


Comunque decidiate di preparare questa composta, provatela: salverete delle fragole dall'oblio e avrete tra le mani qualcosa di delizioso che vi terrà compagnia a colazione, a merenda o per uno spuntino qualsiasi.

Io la utilizzo tanto a colazione, così posso evitare di trafficare con il coltello di prima mattina, soprattutto quando ho fretta: yogurt, granola e un cucchiaio scarso di questa meraviglia e la colazione è servita.

Ma chi sono io per impedirvi di usarla come vi pare...?

(Una che ha un blog e non può fare a meno di darvi un consiglio: nel prossimo post vi darò un'idea carina! #restateconnessi!)



giovedì 18 gennaio 2018

Vaniglia, vaniglia e ancora vaniglia // La bacca che visse tre volte



Chi mi legge da un po' sa che non amo la vanillina, anche se ammetto che usata con giudizio può avere il suo perché.

Purtroppo però, quel che non mi va giù, è che la vanillina altro non è che un'essenza chimica e, in qualunque modo la mettiate, nient'altro che un inganno per i nostri sensi.

So che la vaniglia ha un costo estremamente elevato, ma è qui che vi vengo in soccorso io.
Certo, non ho il magico potere di farvi spendere meno nell'acquisto della materia prima, ma posso mostrarvi come utilizzarla fino all'ultimo grammo.

Il primo step è usare i semini che si trovano all'interno di ogni baccello: sono sicura che avrete visto più di uno chef aprirne uno per la lunga e grattare via dei grumetti di pasta scura.

Questa parte è il top del top per i dolci, l'anima assoluta della vaniglia.

Usatela bene e godetene tanto.

Baccelli di vaniglia "esausta"

Quel che ci rimane a questo punto è il baccello "vuoto", che si può comunque utilizzare per infondere la panna o il latte per una crema, infilarla in un vaso di zucchero per aromatizzarlo, per realizzare un estratto alcolico, o qualsiasi altra preparazione che preveda un'infusione.

Ma ci stiamo solo scaldando.

Una volta utilizzati i baccelli come più preferite, non li buttate.
Se li avete usati per una crema, sciacquateli bene e lasciateli asciugare per qualche giorno.
Potete recuperarli di volta in volta dopo ogni preparazione, conservandoli -asciutti- in un vasetto dedicato.

Quando ne avrete una bella manciata, passare allo step successivo:

Estratto di vaniglia -in pasta-

  • 200gr di zucchero superfino
  • 200ml di acqua
  • 3 cucchiaini (circa 50gr) di glucosio (facoltativo ma consigliato*)
  • 10-15 baccelli di vaniglia "esausta"


In un piccolo, ma potente, frullatore (meglio ancora un macina caffè pulito o un macina spezie) frullate grossolanamente lo zucchero con i baccelli di vaniglia.

Non è importante che la vaniglia venga polverizzata in questa fase, ma con questo passaggio stiamo già iniziando ad estrarre aroma dai baccelli.

Trasferite lo zucchero alla vaniglia in un pentolino e aggiungete l'acqua e il glucosio (*questo ingrediente non è strettamente necessario, ma aiuta la consistenza finale e, a mio parere, anche la conservazione).

Accendete il fornello a fuoco medio alto e portate a bollore.
Raggiunta l'ebollizione, abbassate la fiamma e lasciate cuocere per una decina di minuti.

Trascorso questo tempo, filtrate il composto, in modo da recuperare la parte fibrosa della vaniglia.
Rimettete la fibra recuperata, ormai ammorbidita dalla cottura, nel frullatore e frullate fino ad ottenere una poltiglia grossolana.
Se necessario aggiungete un po' dello sciroppo filtrato per aiutarvi a frullare.

Rimettete sciroppo e fibra frullata nel pentolino e fate cuocere altri 10 minuti, mescolando di tanto in tanto.

A questo punto filtrate nuovamente attraverso un colino a maglie fini, premendo con un cucchiaio per estrarre fino all'ultima goccia di sciroppo.


Controllatene la consistenza, che dovrà avere un certo corpo (ma non eccessivamente: raffreddandosi e conservandolo in frigo tenderà ad addensarsi ulteriormente).
Se siete soddisfatti, travasatelo in vasetti o bottigliette sterilizzate, etichettate e conservate in frigorifero.

Se la consistenza vi dovesse sembrare troppo acquosa, cosa che può succedere se non utilizzate il glucosio, trasferite nuovamente lo sciroppo nel pentolino -pulito- e fate ridurre a fuoco medio basso per un'altra decina di minuti, ma fate attenzione a non esagerare se non volete ritrovarvi con un caramello invece di uno sciroppo.

E, ve lo devo dire: questo sciroppo-pasta di vaniglia è una bomba.
Seriamente, è quasi più intenso dei semi di vaniglia in purezza, cosa piuttosto sconvolgente se pensate che è realizzato con un prodotto che saremmo stati pronti a buttare.

Ma non è finita qui.
Pensavate, finalmente, di potervi sbarazzare della fibra avanzata da questa lavorazione?
Fermi dove siete!

Certo, è ormai piuttosto sfruttata, ma se provate ad annusarla e a guardare con attenzione tra le fibre ormai scolorite vi accorgerete che ha ancora un delicato e piacevole aroma e che qualche semino è ancora presente.
Quindi perché buttarla?

Fibra di vaniglia secca. Dall'aspetto un po' ambiguo, lo so...


Alcune industrie produttrici di gelato, utilizzano proprio questo tipo di scarto da aggiungere ai loro gusti "vaniglia" (aromatizzati artificialmente), per replicare l'effetto dei semini e dare l'illusione di essere fatti con vera vaniglia.
(Per la serie, "l'inganno dei sensi"...)

Quindi, ok, non è più il top del top, ma può ancora darci grandi soddisfazioni.

Trasferite le fibre di vaniglia su un vassoio -ancora meglio un cestino di fibre naturali, che favorisce il passaggio dell'aria- e lasciatele asciugare perfettamente.

Essendo impregnate di zucchero, ci metteranno qualche giorno, quindi se lo possedete e volete accorciare i tempi, vi consiglio di fare un passaggio in essiccatore per almeno una notte.
(In alternativa sfruttate il calore residuo del forno una volta spento, lasciando le fibre ad asciugare fino a raffreddamento.)

Una volta secche, frullate le fibre in un frullatore piccolo ma potente (come prima: l'ideale sono un macina spezie o un macina caffè pulito), fino ad ottenere una polvere.
Setacciatela e frullate nuovamente ciò che rimane nel colino, in modo da recuperare fino all'ultima fibra di vaniglia.


Questa polverina è estremamente delicata e leggermente dolce, mi piace chiamarla "vaniglia quotidiana" perché è quella che utilizzo anche tutti i giorni nei frullati, in qualche cappuccino aromatizzato e in tutte quelle preparazioni di casa dove desidero un accenno di vaniglia senza arrivare a sacrificare una bacca e, sicuramente, senza ricorrere alla vanillina.




mercoledì 13 dicembre 2017

Burro di mele // Salvando pomi


In autunno e inverno trovo che un vassoio pieno di melograni, arance, o altra frutta di stagione, rendano la casa accogliente e lo preferisco di gran lunga ad un mazzo di fiori coltivati in serra.
Il che è anche un vantaggio, soprattutto con gli agrumi, che finiscono man mano nelle mie spremute mattutine -spesso corrette con del succo di melograno: da provare!-, e vengono sostituite velocemente.

Ma le mele e le pere, che di solito spero di usare in qualche dolce o, utopisticamente, come salutare spuntino pomeridiano -ma che di solito è un tea-, finiscono spesso per appassire, intonse, diventando il monito tangibile della mia trascuratezza.

Ed ecco l'input per questa ricetta semplicissima che potrete declinare a vostro piacimento con le mele o le pere (ma in estate potete cimentarvi anche con pesche e albicocche) della vostra fruttiera, che magari hanno visto giorni migliori.


Per un vasetto di Burro di Mele:

  • almeno 1/2 kg di mele (adoro le Gala e le Renette, ma usate quel che avete, anche un mix di varietà)
  • un paio di cucchiaini di miele (facoltativo)
  • cannella o vaniglia o altri aromi a piacere (facoltativo)
  • il succo di 1/2 limone (di uno intero se volete che la vostra purea rimanga più asprigna) 
  • succo di mela limpido (non dolcificato!) o acqua q.b.


-Chiedo venia se come al solito vi do delle dosi un po' approssimative, ma essendo una ricetta di recupero, quel che è importante è il procedimento più che seguire gli ingredienti al grammo, dato che ognuno avrà in casa cose diverse, quantità diverse e inevitabilmente anche gusti diversi!-

Sbucciate e tagliate le mele a tocchetti, eliminando le eventuali imperfezioni della polpa. 

Trasferiteli in una pentola dal fondo spesso (ancora meglio se utilizzate una pentola di ghisa o di coccio, quella dove si fanno stufati e minestre, per intenderci) con il succo di limone, gli aromi e, se utilizzato, il miele. 

-Ho voluto mettere il miele come ingrediente facoltativo perché essendo le mele molto mature e avendo accompagnato la cottura con del succo di mela, il prodotto finale è risultato un po' troppo dolce per i miei gusti. Ma a voi la scelta.-

Cuocete a fuoco medio-basso, tenendo la pentola coperta. Controllate di tanto in tanto, e se il fondo iniziasse a colorirsi troppo, aggiungete poca acqua (non più di 2-3 cucchiai alla volta) o succo di mela. 


Proseguite la cottura fino a che le mele non si spappoleranno facilmente se schiacciate con il mestolo e il liquido di cottura sarà ridotto al minimo, risultando sciropposo.

A questo punto togliete dal fuoco e con un frullatore ad immersione (in alternativa trasferite tutto nella brocca di un frullatore o in un mixer, compreso il liquido di cottura rimasto) riducete le vostre mele in purea.

Rimettete sul fuoco, sempre medio-basso, e continuate la cottura finché anche il rimanente liquido di cottura non sarà evaporato.
Non posso darvi un tempo di cottura esatto, perché molto dipende dal tipo di mele che utilizzerete, dal loro grado di maturazione, da quanto liquido avete dovuto aggiungere durante la cottura.

Per essere sicuri che il vostro burro di mele è pronto, potete fare la "prova del piattino": versate mezzo cucchiaino di purea su un piattino e verificate se tende a separarsi, rilasciando del liquido. Se sì, dovete cuocere il burro di frutta ancora un po', se invece rimane bello compatto, uniforme e piuttosto lucido, fermatevi pure e travasate nel vostro -o vostri- vasetto sterilizzato. 

E questo è quanto. 

Come avete visto il procedimento è veramente molto semplice e lascia campo libero a molteplici rielaborazioni. Uno dei miei primi tentativi è questo burro di pere al vino speziato, che credo sia fin'ora il mio preferito: vino rosso e arancia (succo e scorza), cannella, chiodi di garofano e anice stellato. Da urlo.


Molto buono anche un burro di mele all'earl grey, con bergamotto e infuso di tea (potevo io esimermi?).
Ma non fermatevi qui: dove c'è aggiunta di liquido, c'è un'opportunità di aromatizzazione quasi infinita.
E non ho nemmeno tirato in ballo le spezie...

Se poi pensate: "Cosa me ne faccio di questa pappetta", vi rispondo chiedendovi di immaginare questo pane (o magari questo) sostituendo la base con un burro di questi dall'aroma dei vostri sogni, e avrete creato qualcosa di inedito e totalmente personalizzato. 
E delizioso, si intende.

Non sto nemmeno a dirvi che potete spalmarlo sul pane, accompagnarci dei pancake, mischiarlo a dello yogurt, aggiungerlo alla vostra colazione, regalarlo per Natale...

Tanto lo so che avete più fantasia di me!

sabato 1 luglio 2017

Fragole e rabarbaro//Tutti hanno bisogno di una spalla

Possibilmente acida.

Avete presente quell'amica a cui tutti danno della str*nza e lei in risposta alza un soppracciglio, si scosta una ciocca di capelli ostentando noncuranza e sorride compiaciuta, come a ringraziare per un complimento?

Quella che chiamate in lacrime quando il vostro lui si è comportato da vera m*rda e dall'altro capo vi dice:"Dì una sola parola e lo uccido io per te".

La adoriamo, non è vero?

Tutte abbiamo bisogno di un'amica così.
O ancora meglio, vorremmo essere noi quell'amica.

E in fondo, pensandoci bene, lo siamo un pochino le une per le altre, o almeno ci proviamo.
Cerchiamo di essere quella con le palle per l'amica ferita che ha bisogno di sentirsi protetta o lo sprone comprensivo ma deciso per quella che ha bisogno di una scrollata all'autostima per fare la cosa di cui ha tanta paura.


Perchè siamo state, siamo e saremo tutte come le dolci, tenere fragole.
Volenterose, mature, ma delicate e facilmente corruttibili.

E prima o poi abbiamo tutte bisogno di un alleato deciso e strutturato, un po' come il rabarbaro.
Acido, leggermente fibroso e croccante, con un sottile aroma agrumato.
Se consumato crudo (in particolare le foglie) decisamente tossico...
Perfetto per contrastare l'innocente cedevolezza delle fragole.

Questa scoperta rencentissima l'ho fatta senza l'intenzione di farci un post, all'inizio.
Nell'orto avevo questo povero rabarbaro strimizito (che ho da anni ma che non mi sono mai davvero preoccupata di coltivare nel modo corretto: mea culpa, rimedierò!), quattro fragole un po' tristanzuole che non avevo mangiato a colazione e mi sono detta...why not?

Nei mesi scorsi -e tutt'ora in realtà- sui social, sono stata sommersa da ricette dolci (e non) a base di questi due ingredienti. Tipicamente inglesi, ma ho scoperto che anche i giapponesi ne vanno matti...
-Cosa gli farà mai l'aspro ai giapponesi...?-
Ma detto ciò, veniamo al dunque, prima che vi venga voglia di chiamare la vostra amica "acida" per farmi dire due paroline dolci... 


Per un vasetto abbondante di composta:
  • 200gr di rabarbaro tagliato a tocchetti (l'ho visto un paio di volte anche al super, le coste già pulite, più rosse e grandi delle mie)
  • 200gr di fragole
  • 200gr di zucchero
  • 100ml di succo d'arancia
  • 1 cucchiaino di amido di mais 
  • 1/2 bacca di vaniglia (facoltativa)
Allora, questo è il mio primo tentativo, quindi potrebbe non essere stato l'approccio più brillante da parte mia, visto che il rabarbaro è rimasto più consistente di quanto mi aspettassi...
(Se mi viene un blocco renale passate a trovarmi in ospedale, che correggiamo la ricetta: il rabarbaro è ricco di acido ossalico, quindi se consumato spesso e in grandi quantità può dare problemi ai reni e innescare altre cosettine poco simpatiche. Ma anche se vi mangiate un kg di funghi tutti i giorni vi casca il fegato. Quindi tranquilli!).

Personalmente l'ho trovato gradevole anche così, e trovo faccia da contrappunto alle fragole, che invece in cottura si fondono quasi del tutto.


Ma di nuovo, veniamo a noi.

Tagliate il rabarbaro e le fragole e tocchetti più o meno delle stesse dimensioni (ripensandoci a posteriori taglierei il rabarbaro a tocchetti e lascerei le fragole intere, se piccine, o al massimo a metà) e mettete tutto a marinare con il succo d'arancia e la bacca di vaniglia, se usata.

Mettete lo zucchero in una padella dal fondo pesante (possibilmente non antiaderente: il caramello raggiunge temperature tali da rovinare anche padelle di una certa qualità, true story folks) con due cucchiai d'acqua.
Portate a caramellatura chiara (massimo color rame) e a questo punto buttateci le fragole e il rabarbaro, compreso il succo d'arancia.
Fate cuocere per una decina di minuti.

Nel frattempo sciogliete l'amido di mais in un cucchiaio d'acqua.
Quando il rabarbaro risulterà piuttosto tenero, versate l'amido sciolto nell'acqua nella padella e mescolate finchè lo sciroppo di cottura non si addensa.

Invasate e utilizzate su del gelato alla crema o fior di latte, su del pane tostato spalmato di ricotta fresca, come ripieno per una crostata, base per un crumble....
Avete capito no?
E magari invitate la vostra amica ad assaggiare, scommetto che apprezzerà.

venerdì 5 maggio 2017

Tsukemono Hashi Yasume//il riposo delle bacchette

Barbabietole, carote, daikon, ravanelli....

Vi siete accorti che, nonostante la primavera, io continuo a stare sottoterra?
Sdraiata qui sotto contemplo i culetti a punta di queste verdure che mi scrutano dall'alto in basso come dita accusatrici.

Ho il sospetto che mi credano un lombrico inoperoso.
Peccato che io non lo sia e che invece stia cercando di spaccare la terra per poter germogliare e aprire le mie foglie al sole, proprio come loro.

Ma lo capisco e lascio perdere.
Forse perché so cosa vuol dire cercare la luce senza trovarla.

E mentre mi accoccolo tra sassi e radici, mi sovviene che, MAGARI, dovrei raccontarvi qualcosa di più interessante delle mie elucubrazioni mentali sulla presunta superiorità morale delle rape.

Anche perché questo post è in gestazione dall'estate scorsa e finalmente vorrei parlarvi degli tsukemono, termine giapponese che racchiude una gamma quasi infinita di preparazioni diverse tra loro, che vanno dalle semplice salatura di verdure servite fresche, fino alla fermentazione di vegetali anche per lunghi periodi, come ad esempio il famosissimo e fetente parente coreano (il kimchi) di cui vi avevo già parlato, che in comune hanno la nobile funzione di accompagnare il pasto, esaltandolo.


Nella cucina orientale non si può davvero parlare di “piatto principale”, dato che nella gerarchia gastronomica di queste culture il fulcro di ogni pasto è il riso: quando si parla di “contorni”, mentre noi pensiamo a tutte quelle preparazioni che accompagnano una proteina o comunque un piatto “forte”, nella cucina orientale per “contorno” si intende un accompagnamento al riso. 
Bollito, bianco. 

Anche la carne e il pesce sono considerati semplici “spalle” del riso, vero indiscusso re del pasto. Basti pensare -come avevo già detto altrove- che gohan in giapponese significa “ciotola di riso” e che comprende il concetto stesso di “pasto”.

-Cosa che trovo molto vicino al nostro modo di usare la parola “pane”, con tutte le valenze simboliche che ha per la nostra cultura.-

Non a caso si riteneva che si potesse campare con una ciotola di riso e del sale.
Qualcosa che sazia e qualcosa che da sapore e piacere.

E con questa parola non voglio fare la volpina maliziosa: piacere è anche sedersi in silenzio a guardare il mare inalando iodio fino in fondo ai polmoni, poter ascoltare la voce e guardare negli occhi qualcuno a cui tieni e che non vedi da tanto tempo, poter ammirare dal vivo un'opera d'arte che avevi visto soltanto sui libri e che per te significa tanto, mangiare una fetta di pane caldo con il primo olio della stagione...e tante altre piccole e grandi cose. 

Chissà perché invece tendiamo sempre a demonizzare il piacere considerandolo quasi sempre un vizio, come qualcosa in cui non si deve indulgere e di cui si può -o addirittura si dovrebbe- fare a meno. 

Ma ci dimentichiamo di come nutra, letteralmente, il nostro spirito, appagando quella parte di noi che non si può soddisfare con qualcosa di meramente materiale.
Possiamo anche avere la pancia piena, ma se il nostro spirito è affamato, non saremo mai sazi.

-E mai germoglieremo.-


O almeno è così che la interpreto io questa visione orientale del nutrimento essenziale, che si prende cura dello spirito e non solo del corpo...anche se questa cosa del sale avrà radici storiche, socio-economiche e culturali che senza dubbio mi sfuggono e quindi potevo evitare di arrotarmi -e arrotarvi- il cervello sulla questione.

Abbiate pazienza, lasciatemi essere romantica finché mi riesce.

Ma di che diavolo starò mai parlando, vi starete senz'altro chiedendo -ammesso che siate sopravvissuti fin qui alla lettura dei miei sproloqui-.

Questa pazza fanatica che vi parla per un'ora di riso bollito e sale e vi fa vedere verdure di dubbia provenienza che galleggiano in strani liquidi colorati e non. 
Quale sarà mai lo scopo di tutto ciò?
Ma soprattutto, perché cavolo dovreste mettervi a fare una roba del genere?

Vi faccio una semplice domanda, occidentaloni sushi-dipendenti dei miei umeboshi: vi piace lo zenzero agrodolce che ordinate al ristorante giapponese?

Ecco.

Ecco perché dovreste cimentarvi: perché queste strane verdurine sono esattamente la stessa cosa. E perché, usando questa tecnica, potrete provare a replicarlo a casa vostra -usando dello zenzero bio freschissimo e poco fibroso-, da servire con il vostro sushino a kilometro zero tra amici e potervi così bullare senza alcun ritegno.

Innanzi tutto bisogna specificare che la preparazione di cui vi sto parlando si chiama hashi yasume, che tradotto dal giapponese sarebbe, in pratica, “il riposo delle bacchette”, noi potremmo dire “che pulisce la bocca” o “rinfresca il palato”: questo tipo di tsukemono prevede quasi sempre l'utilizzo dello zucchero e dell'aceto -ma anche succo di limone e miele-, creando, in modo molto semplice ed immediato, un sapore agrodolce.


Non avete mai notato -certo che lo avete notato- che il riso del sushi ha un leggero sapore agrodolce?
Questo sapore sta benissimo con il riso ed esalta il pesce e, a sentito dire, consumare una componente lavorata con l'aceto -o ancor meglio lattofermentata- durante il pasto, favorirebbe la digestione.
I giapponesi ne sanno una più del diavolo.

Inoltre, se non vi fosse ancora venuto in mente, il dolce-agro di queste verdurine, va a contrastare in modo perfetto, quasi come i colori complementari di una tavolozza, il salato della soia e l'avvolgenza al palato dato dal grasso, della carne -che a giapponesi &co, piace grassa- o del pesce -vedi salmone- o comunque del condimento della preparazione da accompagnare al riso, il quale non mancherà di traghettare tutto sulla sua soffice, confortante neutralità, attraverso il vostro estasiato gargarozzo.

Alla fine sempre lì andiamo a parare: procuratevi un contrasto sensoriale e avrete trovato il piacere.
Vorrei che la facilità con cui si possono abbinare sapori, profumi e consistenze in un piatto si potesse trasmettere alle cose della vita: il giusto equilibrio sarebbe a portata di mano.

Ma torniamo in Cucina e rimbocchiamoci le maniche, che Celeste mi guarda male da dietro il bancone, brandendo minacciosamente un daikon di dimensioni equine.
-E quando inizio ad avere visioni di me stessa in terza persona la situazione è parecchio grave-

Vi darò delle proporzioni, invece che delle quantità, perché ritengo che sia più onesto darvi delle linee guida da seguire per poter dare sfogo alla vostra creatività -e necessità del momento- piuttosto che una limitante ricetta. 

L'unico consiglio è di abbondare con le quantità di soluzione zucchero/aceto: una volta pronta si conserva praticamente in eterno e l'avrete già pronta per i vostri prossimi tsukemono.


  • una parte di aceto bianco distillato
  • una parte di zucchero bianco superfino
  • una parte di acqua
  • sale q.b.
  • verdure fresche croccanti
Se volete preparare questa preparazione a freddo, per utilizzarla tutta in una volta, andrebbe fatto uno sciroppo con pari quantità di zucchero e acqua. Se l'idea vi piace di più, per praticità potreste anche utilizzare uno sciroppo già pronto che trovate in bottiglia al super.

Decidete cosa preferite fare ma tenete conto che, se realizzate una marinatura a freddo non protraete la conservazione di questi preparati per più di qualche giorno in frigorifero.

Ma veniamo finalmente al dunque!

Per questi ravanelli -un paio di bei mazzetti freschi, che dovrebbero essere i veri protagonisti della puntata- ho pensato di adottare due approcci differenti: i più piccini li ho “schiacciati” leggermente premendoli contro il piano di lavoro con la parte piatta di un mestolo in modo da spaccarli senza distruggerli, un po' come si fa per le olive (se qualcuna delle vostre mamme/nonne le fa ancora in casa, saprete senz'altro di cosa sto parlando) .

Quelli più grandi invece li ho tagliati a rondelle sottili, operazione che (se avete la mandolina) porterete a termine in 30 secondi netti.

Dopodiché li ho divisi in due ciotoline e li ho salati abbondantemente (circa 1½-2 cucchiaini per ciotola). Non preoccupatevi: la maggior parte di questo sale andrà eliminato con l'acqua di vegetazione prodotta delle verdure.

Massaggiateli con il sale, in modo da farlo penetrare bene, poi lasciateli riposare per 15/20 minuti.


-Questa operazione va fatta per qualsiasi tipo di verdura decidiate di utilizzare. Se scegliete verdure diverse e con colori differenti, utilizzate altrettante ciotoline per la fase di salatura, anche se alla fine dovranno finire nello stesso barattolo. Questo discorso cambia per verdure che tendono a cedere colore come la barbabietola e i ravanelli, perché andranno comunque a tingere qualsiasi altra verdura con cui entreranno in contatto. Cosa che in realtà si può utilizzare a nostro vantaggio, divertendoci anche un po'. Ma questo lo vediamo tra poco.-

Nel frattempo portate ad ebollizione l'aceto con l'acqua e lo zucchero, finché quest'ultimo non sarà completamente sciolto. Una volta a bollore abbassate la fiamma e procedete con il resto della preparazione.

Con le mani pulite, o meglio ancora con dei guanti, strizzate le verdure per eliminare l'acqua in eccesso. Disponetele in vasetti puliti e sterilizzati e, con attenzione, versatevi sopra la soluzione agrodolce bollente fino a coprirle completamente.

Se le avete -vi consiglio comunque di comprale perché non costano nulla, sono riutilizzabili e vi aiutano parecchio- utilizzate quelle piccole grigliette di plastica che si trovano anche nei sottolio, per tenere sotto la superficie del liquido le pietanze da conservare.

Chiudete bene e lasciate raffreddare completamente, prima di conservare in frigo fino al momento dell'utilizzo.

In realtà si può anche scegliere di preparare la soluzione agrodolce, farla raffreddare e versarla a freddo sulle verdure, lasciandole ancora più croccanti, ma ovviamente anche questa scelta può influire sui tempi di conservazione.

Questo è quanto: servite le vostre verdurine agrodolci in piccole ciotoline o piattini, guarnendole, se vi piace, con semi di sesamo nero -più che altro per contrasto cromatico-  e gustatele tra un boccone e l'altro del vostro pasto all'orientale.

Quelli fluorescenti e orrendamente sfocati nel piattino a foglia sono dei ravanelli schiacciati. Il vero aspetto del mio pranzo all'orientale: decisamente meno glamour e con tanto di tovaglia zozza e sbrodolature...-sorry-
* Se vi piace l'idea di realizzare uno tsukemono color magenta, tagliate del daikon a listarelle -ma chi vi impedisce di tagliarlo a fiorellini, foglioline, cuoricini, rombi...-, trattatelo come vi ho spiegato, e al momento di metterlo nei vasetti fateci scivolare dentro anche un paio di fettine di barbabietola pulita e pelata. Versatevi la soluzione agrodolce e lasciatelo riposare una notte. Il giorno dopo eliminate la barbabietola, che avrà assolto la sua funzione di colorante, e vi ritroverete con un riposa-bacchette rosa shocking.

* Per lo tsukemono di Kombu -che se la utilizzate durante la cottura del riso o in qualche brodo, vi capiterà senz'altro di averla in giro e di non sapere cosa farvene- tagliate a striscioline sottili l'alga già reidratata e mettetela in un vasetto. Preparate la marinatura con una parte di soia, una di zucchero di canna scuro e una di aceto -meglio se di riso o di mele in questo caso- portando tutto a bollore in un pentolino. Una volta sciolto lo zucchero versate nel vasetto con le alghe a striscioline, chiudete il vasetto e conservare in frigorifero, esattamente come per gli altri tsukemono.
Servitene qualche strisciolina sulle vostre ciotole di riso caldo, con qualche goccia di marinatura e una presa di sesamo tostato.

Ma non fatevi arginare: date libero sfogo alla vostra fantasia.

Il bello della cucina giapponese, e trovo che sia un punto in comune con la nostra, è l'utilizzo di prodotti freschissimi e stagionali: quindi se adocchiate qualcosa di particolarmente interessante al mercato, buttatevi. 

I giapponesi approverebbero.
Le rape probabilmente no.

lunedì 22 agosto 2016

Sesamo tostato//qualcosa di essenziale



Un post veloce che si unisce alla collezione sul mio pranzo all'orientale.
Piccolo ma fondamentale come i semini di cui vi vado a parlare: il sesamo.

L'aroma tostato di questo piccolo seme è una delle note basilari di moltissimi (se non tutti!) i piatti orientali. Cucina giapponese, cinese e coreana non sarebbero le stesse senza di esso.

Ecco perchè vi voglio svelare un segreto che ho appreso qualche tempo fa, che ha cambiato completamente il mio modo di tostare il sesamo, ottenendo un risultato a dir poco superlativo.



"Eccapirai" starete pensando.
Anche io non ci credevo, eppure, se usate questo metodo, non tornerete più indietro.

Come il riso, anche il sesamo ha bisogno di un bagnetto. Eh si. Eh già.

Provare per credere, la differenza è sostanziale: lavando i semi prima di tostarli li liberate dalle impurità e li reidratate parzialmente.
Tostando direttamente i semi si va a bruciare lo strato di polvere che li ricopre e, l'interno del seme ancora secco, andrà a tostarsi in modo non uniforme, impedendogli di sviluppare tutto il loro aroma.

Provate con una piccola quantità se non vi va di imbarcarvi in un'impresa più impegnativa e vi stupirete di quante impurità troverete e del colore di cui diventerà l'acqua...

Vi posto il video dal quale ho appreso questo segreto, e vi do un consiglio: seguite questa signora coreana, è mitica!
Grazie ai suoi video ho iniziato a preparare alcune ricette...e me ne sono innamorata!
Enjoy!



Come ho già detto, iniziate con una piccola quantità, ma il consiglio è di farne una quantità abbondante (una confenzione da 250gr) e conservarla in vasetti, proprio come fa la mia Maangchi.

Se vi piace la cucina orientale, non potete proprio fare a meno di questo ingrediente: si spolvera un po' su tutto e, con il suo aroma inconfondibile, è assolutamente essenziale, anche su una banale zuppa di miso.

Come dice Maangchi, la prova del nove è se il vostro sesamo tostato si polverizza tra le dita, sprigionando tutto il suo aroma...

lunedì 22 febbraio 2016

Sriracha-salsa agrodolce al peperoncino e aglio//come farvi in casa una nuova dipendenza


Questo post vuole essere un piccolo nuovo esperimento.
Vorrei un po' cambiare, o magari migliorare e aggiungere qualcosa, al modo di condurre questo mio piccolo blogghettino.

Mi sono accorta che, per quanto mi piaccia proporvi dei post carucci e pettinati, sento che questa cosa penalizza un po' quella parte grezza e sporca, ma decisamente più interessante del creare una ricetta.

Quella parte ancora incerta, dove si sperimenta un po' e si aggiusta il tiro in corsa.
Ecco, vorrei condividere questo con voi.

Questa ricetta, ma forse dovrei chiamarlo "progetto" o "esperimento", vuole provare a fare proprio questo.
Oltre che a regalarvi una nuova sado-masochistica dipendenza.

E' una salsina meravigliosa, che prima di provare a replicare nella mia cucina, ho provato confezionata.
Una bottiglietta piccola. Troppo piccola.
E quasi cinque euro a botta.
E io ho iniziato a spalmarla ovunque.
Bisognava porvi rimedio.


Questo autunno (che poi è quando è nato l'amore per questa salsa...), dopo aver spulciato internet alla ricerca di risposte, ho provato a realizzarla utilizzando dei peperoncini, ormai quasi del tutto secchi.
Tra l'altro peperoncini dell'orto del mio daddy, che già da freschi fanno gocciolare il naso...

Troppo piccante.
Troppo piccante nonostante abbia aggiunto un peperone dolce per smorzare il tutto, conscia che sarebbe stata infernale. E ho detto tutto.
Non che mi dispiaccia, chiariamoci, il sapore è comunque quello che cercavo, ma devo usarne in dosi omeopatiche. E non ci siamo.

La soluzione è giunta a me qualche settimana fa, comprando un paio di peperoncini al super.
Totalmente fuori stagione, lo so, ma a volte il desiderio chiama.

Ma il mio desiderio non è stato placato perchè questi peperoncini erano veramente poco piccanti, tanto da sapere quasi più di peperone che di peperoncino.


E da qui, l'idea.
Ecco, provo a farla con questi la salsina del mio cuore, lasciando i semi dovrei ottenere la giusta piccantezza.
Eccoci qua quindi:

500gr abbondanti di peperoncini (poco piccanti)
1 testa d'aglio (circa 60gr di spicchi puliti)
un pezzetto di zenzero fresco pelato (40 gr circa//facoltativo)
70gr di zucchero
3 cucchiai di aceto bianco (circa 45ml)
3 cucchiai di salsa di pesce thai (o colatura di alici o salsa di soia)
3 cucchiai di acqua
1/2 cucchiaio di sale fino

Lavate i peperoncini, eliminate il picciolo verde e tagliateli a pezzi.
Frullate nel mixer con l'aglio e lo zenzero, se usato.
Frullate fino ad ottenere un trito grossolano.
Aggiungete i restanti ingredienti e frullate fino ad ottenere una consistenza semi-fluida.
Ma non vi ostinate più di tanto: questa fase serve solo a far amalgamare gli ingredienti.


Trasferite in una vaso (meglio se con la "macchinetta") sterilizzato, chiudete ed etichettate: data di preparazione e, calcolando un 10-15 giorni, data di fine fermentazione.

Eh si. Eh già.
Paura?
Un po', ma è proprio questo il divertimento.

Lasciatela al riparo dalla luce diretta (non lasciatela sul davanzale della finestra per intenderci) e se vi ricordate, mescolatela con un cucchiaio PULITO una volta ogni tanto.
Quando vi ricordate.
Anche mai.

DIARIO DI BORDO:
Confesso, scrivendo gli ingredienti ho realizzato con orrore che forse ho aggiunto troppo sale nella mia preparazione: 1 cucchiaio intero. ARGH.
Così nella ricetta che vi ho dato ho ridotto la quantità a 1/2 cucchiaio, sperando che sia corretta.
Avrò esagerato aggiungendo un cucchiaio intero?
Avrò azzeccato la dose da darvi?
Dovrò buttare tutto?
...dovrete buttare tutto?

Ecco cosa intendevo con la fase sperimentale e grezza.
Ci rivediamo qui tra 10 giorni e scopriamo come sono andate le cose.

Buona fermentazione, miei prodi!
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Se i miei calcoli non sono errati (il che potrebbe essere sconvolgente), ed avete iniziato questo viaggio insieme a me, ormai dovreste esserci anche voi.
Come sta il vostro barattolo di deliziosa piccantezza?

Il mio, dopo 15 giorni di fermentazione, odorava meravigliosamente.

E, forse è una mia impressione, ma con la fermentazione e le bollicine che questa produce, il composto sembrava gradualmente aumentare di volume.
Curioso, no?



Aprite il vostro barattolo di felicità e, volenti o nolenti, verrete investiti da una zaffata di peperoncino, aglio e salsa di pesce.
Oh, yeah.

Versate tutto in una casseruola con il fondo spesso e fate cuocere per una decina di minuti a fuoco vivo.
A questo punto, con un frullatore ad immersione, frullate il composto: attenzione, perchè durante questo procedimento sono riuscita a schizzarmi la faccia di peperoncino bollente.
Per fortuna sono una quattrocchi.

Appoggiate un colino ad una ciotola e rovesciateci la sbobba piccante appena frullata, magari in due volte.
Con un cucchiaio lavoratela schiacciandola contro i bordi del colino, in modo da estrarre fino all'ultimo grammo di polpa, trattenendo le bucce e i semi e i filamenti dello zenzero.

Rimettete la passata raccolta nella pentola pulita, e rimettetela sul fuoco.

Fatela sobbollire un altro po'...e qui viene il bello: vi tocca assaggiare.
Munitevi di pane, latte o formaggio. O tutt'e tre.
E poi cominciate.
L'ideale, dato che il calore può falsare il sapore del prodotto finale, che tendenzilamente userete freddo di frigo, è prelevarne un cucchiaino, distribuirlo su un piattino e farlo raffreddare in frigo per 5 minuti.


Assaggiate e regolate secondo il vostro gusto: la salsa deve essere saporita, decisamente piccante ma mitigata dall'agrodolce, sfiziosa e aromatica per la presenza dell'aglio.

Non dimenticatevi di controllare anche la consistenza, che dev'essere simile a quella della passata di pomodoro: io ho dovuto aggiungere dell'acqua (bollente), perchè era diventata troppo compatta, e farla cuocere un altro po'.

Una volta bilanciati tutti i sapori e siete soddisfatti (la prova del nove e se vi ritrovate a leccare il cucchiaino piangendo di lussurioso dolore, chiedendovi cosa potreste farvi per pranzo da poter spalmare abbondantemente con questa cattivissima ragazzaccia. Un'idea? Eccola...) travasate la salsa in vasetti sterilizzati o, se foste fortunati, in bottigliette sterilizzate.
Io ho optato per i vasetti, un tipo che non ho mai ultilizzato e che per questo terrò in frigorifero, ma se la salsa è bollente, e chiudete benissimo (sì, fin quasi a slogarvi il polso) i vostri contenitori, potrete conservare la vostra salsa tranquillamente in dispensa.

Etichettate con la data e una volta aperta conservatela in frigorifero, consumandola nel minor tempo possibile. Come tutte le conserve casalinghe.


DIARIO DI BORDO:
Sono molto soddisfatta del risultato!
Il sale non era troppo alla fine, quindi se fosse necessario potete aggiungerne in cottura. Con il sale sempre meglio aggiungere alla fine che pentirsi di averne messo troppo all'inizio. 
Diciamo che mi è andata bene.

La quantità che aggiusterei è quella dello zenzero, o forse il mio era molto forte perchè ce l'avevo in giro da un po' e si era asciugato. In ogni caso lo ridurrei a 20gr se "vecchio", salendo a 30gr se molto fresco e succoso.

Infatti l'unica pecca è che il piccante dello zenzero si sente molto, amplificando la piccantezza della salsa che risulta quasi balsamica.
Ma non male comunque. 

State molto attenti durante la fase di cottura e regolazione dei sapori: prima di consigliarvi di raffreddare la salsa, ho regolato assaggiando il composto bollente, ritrovandomi ad un certo punto con una salsa troppo dolce.
Per sistemarla ho aggiunto del concentrato di pomodoro e altro aceto.
Ma se seguite i miei consigli non sarà necessario.

Quindi, a questo punto, direi: esperimento riuscito!
Spero che qualcuno di voi si cimenti e che mi faccia sapere com'è andata.

Buona sperimentazione a tutti!

lunedì 14 settembre 2015

Dolce Basilico - Inseguendo un profumo


Avete mai affondato il naso in una manciata di basilico appena raccolto, ancora caldo di sole?
Cannella, chiodi di garofano, una punta di menta, limone ed erba appena tagliata...
Foglie verdi e tenere dall'aroma paradisiaco.
Non vi è mai venuta la tentazione di aprire la bocca e sbocconcellare voluttuosamente qualche foglia, come una capretta ubriaca?

No?
Okkey...va bene.

Ma, anche se non siete dei fanatici come me, concorderete che il profumo del basilico è nella top ten degli aromi migliori che ci siano in natura.  
Vince senz'altro il primo posto come profumo dell'estate. 
A mani basse proprio.


Quindi può darsi che questo post sia un po' fuori tempo, ormai.

Ma forse no, forse siamo ancora in tempo per trattenere un pezzettino d'estate qui con noi, cercando di intrappolarne il profumo.
 
Ma facciamo presto, prima che il basilico senta freddo, prima che si accorga che è quasi autunno e cominci a cambiare profumo e a far ingiallire le foglie. 

Il modo più tradizionale, veloce e funzionale è fare un classico pesto e congelarlo in mono porzioni. 

Frutta secca (quando devo farne grandi quantità spesso uso le noci di macadamia o gli anacardi per risparmiare sui carissimi pinoli...il risultato finale è più delicato ma altrettanto ricco), poco aglio, tanto basilico e olio e.v.o. quanto basta. 

Niente formaggio, che aggiungerete solo al momento dell'utilizzo. Consiglio della mamma.


Ma non è di pesto che voglio parlare.

Avete mai provato a mangiare una fetta di pesca con una foglia di basilico?
O delle fragole? O un fico?
Inebriante.

Da qui l'intuizione. Il basilico in pasticceria.
E non solo perchè penso che sia fattibile in termini di sapori e profumi, ma per l'idea stessa di racchiudere l'aroma di quest'erba in un dolce, valorizzandolo all'estremo, come solo un dolce può fare.

Sì, perchè il dolce, nel linguaggio della cucina, è una chiosa, è l'ultima parola, che si spera sia d'amore, un sonetto in rima alla fine di un racconto in prosa. 

Deve soddisfare i sensi e incuriosire la mente più che riempire la pancia, lasciandoci desiderosi di proseguire la ricerca, preferibilmente su altri morbidi orizzonti...

..in questo caso però, è più facile a dirsi che a farsi.

Si, perchè intrappolare quell'aroma, quello che si sente premendosi una foglia sotto le narici, è quasi impossibile. 
 
Essendo un'erba fresca e delicata, con la lavorazione tende ad ossidarsi, disperdendo in un attimo gli oli volatili che ne connotano il profumo, distorcendolo e trasformandolo in un vago ricordo di quell'aroma, rischiando di ritrovarci con un mal riuscito dolce al pesto invece di un fragrante boccone al basilico.


Ma smettiamola di cincischiare e veniamo alle ricette, che per semplificare ho diviso nella preparazione di due frolle, ma che racchiudono in sè diverse lavorazioni che, per chi ha l'occhio lungo, sarà facile riutilizzare anche in altre ricette...

Biscotti alla frolla verde:
-un'abbondante manciata di basilico fresco
-125gr di zucchero
-la scorza di mezzo limone
-un pizzico di cannella
-un pizzico di sale
-125gr di burro
-250gr di farina 00
-un uovo, sbattuto

Nel mixer frullate il basilico con lo zucchero e la scorza di limone grattugiata, fino ad ottenere una sorta di pasta. 

Per scongiurare (ma non sperateci troppo) l'ossidazione, prima di frullare, mettete il contenitore e le lame del mixer per qualche minuto nel freezer.

Aggiungete la farina, la cannella e il sale e frullate per incorporare lo zucchero e il basilico.

Unite il burro freddo a tocchetti e frullate fino ad ottenere un composto sabbioso e sbriciolato.

Con il motore in funzione aggiungete l'uovo, quando il composto farà una specie di "palla", spegnete e strasferite sul piano di lavoro.

Avvolgete nella pellicola trasparente e fate riposare in frigo per almeno mezz'ora.

Riprendete la pasta, lasciate che si ammorbidisca un po' e poi stendetela fra due fogli di carta forno, allo spessore di 5 mm circa.

Con il taglia biscotti che preferite, intagliate quanti più biscotti possibili. 
Traferite su una placca foderata con carta forno e cuocete a 180° per 15-20 minuti.

Lo ammetto. 
Una volta sfornati e assaggiati ero pronta a buttare tutto e ricominciare da capo.
 
Ma quale basilico baciato da sole? 
 
Il profumo che c'era nella mia cucina era più simile a della maggiorana secca. 
Non sgradevole, anzi, ma lontano anni luce dal risultato che speravo.
 
Ho lasciato la cosa in sospeso per una notte...che ho passato rimuginando e scandagliando internet alla ricerca di una soluzione.
Leggendo qua e là ho scoperto che molti abbinano il basilico al cioccolato. Nero fondente.
 
Proviamo, mi sono detta.
 
E in effetti...come in molti altri casi, il cioccolato è quello giusto per il lavoro.
 
La punta di amaro aiuta a non trasformare il basilico in pesto, e l'aroma latente del basilico esalta quello del cioccolato in un gioco di contrasti inusuale ed intrigante, tanto da chiedersi, se non si conosce la ricetta, quale sia l'ingrediente segreto in questi biscotti. 

Quindi, fate sciogliere 100-150gr di cioccolato fondente (70% minimo) e decorate i biscotti, raffreddati completamente, come più vi aggrada: dopo attenta riflessione credo che una generosa pucciata sia più adatta. Ma vedete voi.


Non contenta però, ho voluto riprovarci, cambiando approccio.

Foglioline di zucchero (lo so, andrò all'inferno della leziosità per questi nomi...):
-125 gr di burro
-un'abbondante manciata di foglie di basilico
-la scorza di mezzo limone
-un uovo, sbattuto
-200gr circa* di farina 00
-100gr circa* di zucchero
Per la ghiaccia:
-200-250gr di zucchero al velo (meglio se non vanigliato)
-un'abbondante manciata di foglie di basilico
-il succo di mezzo limone
-un cucchiaino di zucchero semolato

Tagliate il burro a tocchetti e mettetelo in un pentolino dal fondo spesso.

Dopo qualche minuto aggiungete il basilico, leggermente stropicciato tra le dita.

Mescolate con una spatolina e non appena il burro si sarà sciolto, togliete dal fuoco.

Meno calore sente, meglio sta il basilico.

Lasciate in infusione qualche minuto, poi, prima che si rapprenda, filtrate (senza pressare troppo) e trasferite in un contenitore di alluminio (ne ho sempre qualcuno di quelli piccoli quadrati sottomano). 

Fate rapprendere completamente in frigo prima di utilizzarlo per la vostra ricetta.

*Scaldandolo e filtrandolo, avrete una perdita di peso del vostro burro, che arriverà intorno a 100gr circa: pesatelo e adattate la ricetta della frolla utilizzando pari peso di zucchero e il doppio di farina. 
Easy peasy.

Il resto della ricetta è identico a quella precedente, esclusa la pasta di basilico ovviamente.


Una volta sfornati e raffreddati, decorate i vostri biscotti con la glassa.

La glassa si prepara pestando il basilico e il cucchiaino di zucchero semolato in un mortaio.
Niente metallo. Marmo. Al massimo ceramica o legno. 
Niente. Metallo.

Ci sarà un motivo se in Liguria il pesto lo fanno solo nel mortaio!

Pestate fino a creare una puccia verde e aggiungete il succo di limone. Mescolate ancora per amalgamare bene, poi filtrate il composto attraverso un colino.

Aggiungete gradualmente lo zucchero al velo fino ad ottenere una glassa densa. 
Se la lascerete troppo liquida colerà dappertutto e ci metterà ore ad asciugare.

Questa volta il risultato è stato più vicino alle mie aspettative, il limone ha aiutato molto, infatti la parte del leone la fa la glassa, decisamente meno il burro nell'impasto: talmente sottile che quasi non si percepisce.
Ma nel complesso buoni, profumati, il sapore e l'aroma del basilico rimane fresco ed erbaceo, perfetti da servire con una tazza di the verde, rigorosamente non zuccherato.


Ma non sono ancora del tutto soddisfatta.
Quindi, come un folle chimico, mi sono messa alla ricerca di altri modi per intrappolare quell'aroma, seccandone le foglie, cercando di estrarlo sommergendone le cimette più verdi nell'alcol, o sobbollendone lentamente i fiori in uno sciroppo...
 
Ma, alla fine di tutta questa sciarada ho scoperto che, sì, il basilico si può davvero usare in pasticceria e sicuramente gli esperimenti non sono finiti.

Anzi, con tutte queste pozioni che decantano, sono appena cominciati...